Non
affezionarti troppo alla prima idea.
Editing e norme editoriali
Cosa
significa editare
Editare significa
·
modificare
·
correggere
·
tagliare.
In altre parole, significa chiedersi se:
·
una scena funziona
·
una scelta per uscire da una trappola non è troppo
facile
·
un dialogo è banale, o prevedibile, o forzato
·
un personaggio ha bisogno di maggiore caratterizzazione psicologica,
maggiore spessore
·
i tempi della narrazione funzionano.
Inoltre, editare significa domandarsi se:
·
siete verbosi solo per far sfoggio del vocabolario di cui disponete, ma
dimenticate di mandare avanti l’azione
·
ci sono cadute, buchi, momenti in cui la tensione che avete alimentato fino
a quel punto subisce qualcosa di simile al vuoto d’aria che si sperimenta, per
esempio, quando si sale su una giostra, o quando in automobile si prende un
dosso a velocità troppo elevata.
Infine, editando è facile:
·
scoprire che a volte avete sovrapposto la vostra voce al racconto;
·
constatare che un’emozione è stata
detta, ma non mostrata;
·
capire che cosa manca a una
descrizione.
In altre parole, editare è la fase della “critica costruttiva” al vostro
testo, che difficilmente riuscirete a mettere a punto da soli, perché non c’è
l’opportuno distacco fra voi e la vostra opera.
Mostriamo l’atto pratico dell’editare
attraverso un esempio.
“La
notte di Capodanno del 1935 nevicava. Passammo il confine tra Alabama e
Louisiana esattamente a mezzanotte, ben chiusi nella nostra Ford Sedan.
Stappammo lo spumante senza nemmeno rallentare.”
Davanti a questo testo l’editor andrà
a controllare se:
·
Alabama
e Louisiana confinano davvero (e scoprirà che in mezzo c’è l’intero stato del
Mississippi)
·
la
Ford Sedan era in circolazione nel 1935
·
si
poteva girare così liberamente con alcolici o se era ancora in vigore il
Proibizionismo
·
se
a Capodanno nevicava davvero in quei luoghi.
In seconda battuta passerà al setaccio
grammatica e sintassi:
·
congiuntivi
·
concordanze
·
composizione
dei periodi.
·
Nel frattempo terrà d’occhio il senso,
che sembra scontato ma non lo è per niente: succede spesso che una frase sia
corretta dal punto di vista tecnico ma non significare niente.
Le ripetizioni. A volte sembra di
leggere un rapporto di Polizia. “La sparatoria è avvenuta all’interno del
cortile nell’abitazione della vittima. L’aggressore ha fatto fuoco contro la
vittima nel cortile, colpendo la vittima al cuore.”
La punteggiatura: c’è chi non la
mette, chi ne abusa, chi sparge virgole a casaccio.
Anche la scelta delle parole è
importante. Ci sono tre ordini di errore in cui si può incappare:
·
il
termine del tutto sbagliato - “appoggiò i piedi sul cofano”, ma sono dentro la
macchina, perciò è il cruscotto-
·
quelli
che somigliano, ma sono scorretti
-“raggirò il comodino”: Povero comodino, perché imbrogliarlo?-
·
quelli
che sarebbero esatti, ma sono brutti, complicati, arcaici o provenienti da
altre lingue -“ci vediamo al meeting” invece che al convegno.
Rime, assonanze e allitterazioni
rientrano in questa categoria.
“Ci abbuffammo di abbacchio abbastanza abbondantemente”.
La coerenza interna a volte difetta
anche ai più attenti. Whisky o whiskey sono entrambi corretti ma bisogna fare
una scelta e mantenerla uniformemente per tutto il romanzo.
Nella foga di inseguire la storia,
succede di aggrovigliarsi in frasi legnose o farraginose.
“Arrivò a un punto in cui due strade
provenienti da direzioni diverse si intersecavano” al posto di: “Arrivò a un
incrocio”.
Ogni autore ha la sua voce, o più
voci, a seconda del tono che vuole dare all’opera: è il suo stile. Una volta
impostato deve essere mantenuto.
Come si fa a
migliorare un testo
Basandomi su alcuni testi corretti e
poi pubblicati, vorrei mostrare come, in alcuni casi, non è soltanto
l’asciugatura ma è soprattutto lo spostamento di porzioni di testo specialmente
nell’incipit a migliorare la scorrevolezza, la leggibilità, il ritmo, la
curiosità. Ma prima di tutto torniamo ancora all’incipit, questo momento
fondamentale, questo nucleo di materia ricchissimo che da solo a volte decide
le sorti di un libro.
Non è un riassunto, non deve svelare troppo ma essere carico di tensione, così
da accalappiare letteralmente il lettore, da dargli l’impressione che stia per
accadere qualcosa.
L’incipit deve possedere un qualche grado di ambiguità, sedurre il lettore,
creare attesa, essere carico di aspettative.
Come fare?
·
Si
può iniziare un testo in modo classico, seguendo gli eventi in modo
cronologico. Semplice, ma non per questo meno efficace.
·
Si
può partire in media res, portando
il lettore nel cuore dell’azione e impegnarlo in una lettura più attenta. In
questo caso non verranno narrate le premesse, che emergeranno attraverso i
dialoghi, i racconti dei personaggi, con i capitoli successivi, insomma.
In media res iniziava la narrazione epica, per esempio quella di Omero, priva
di preamboli e di introduzioni, perché entrava nel vivo della vicenda.
·
L’azione
può anche svilupparsi a posteriori, dopo che i fatti sono accaduti. In questo
caso le storie vengono riferite dal protagonista, o da qualcuno che ha
assistito ai fatti, ad altri personaggi.
·
L’incipit
può essere anche descrittivo, nel qual caso inizia con la descrizione dei luoghi in cui si svolgerà
la vicenda o con la presentazione di un personaggio, in genere il protagonista.
Di seguito alcuni esempi di incipit
fra i più famosi.
L’amante, Marguerite Duras.
“Un
giorno, ero già avanti negli anni, in una hall mi è venuto incontro un uomo. Si
è presentato e mi ha detto: ‘La conosco da sempre’. “
Cent’anni di solitudine, Gabriel García Márquez
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione,
il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio
in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.»
Orgoglio e pregiudizio, Jane Austen
«È cosa nota e universalmente
riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere
in cerca di moglie.»
Sulla strada, Jack Kerouac
«La prima volta che incontrai Dean fu
poco tempo dopo che mia moglie e io ci separammo. Avevo appena superato una
seria malattia della quale non mi prenderò la briga di parlare, sennonché ebbe
qualcosa a che fare con la triste e penosa rottura e con la sensazione da parte
mia che tutto fosse morto.»
Ulisse, James Joyce
«Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto
delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno
specchio e un rasoio.»
1984, George Orwell
“Era una fresca limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una.
Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al
rigore del vento, scivolò lento fra i battenti di vetro dell’ingresso agli
Appartamenti della Vittoria, ma non tanto lesto da impedire che una folata di
polvere e sabbia entrasse con lui”.
Il
grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald
“Nei
miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho
mai smesso di considerare. ‘Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno’,
mi disse, ‘ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi
vantaggi’”.
La
casa degli spiriti, Isabel Allende
“Barrabás arrivò in
famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia.
Già allora aveva l'abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando
rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant'anni
dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del
passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò
Barrabás era Giovedí Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi
escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero
miserabile e indifeso, ma già si intuiva - dal portamento regale della sua
testa e dalla dimensione del suo scheletro - il gigante leggendario che sarebbe
diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva
presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che
accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastián, alla
quale assistette con tutta la famiglia.”
Seta, Alessandro Baricco
“Benché suo padre avesse immaginato per lui un brillante avvenire
nell'esercito, Hervé Joncour aveva finito per guadagnarsi da vivere con un
mestiere insolito, cui non era estraneo, per singolare ironia, un tratto a tal
punto amabile da tradire una vaga intonazione femminile.
Per vivere, Hervé Joncour comprava e vendeva bachi da seta.
Era il 1861. Flaubert stava scrivendo Salammbò, l'illuminazione elettrica era
ancora un'ipotesi e Abramo Lincoln, dall'altra parte dell'Oceano, stava
combattendo una guerra di cui non avrebbe mai visto la fine.
Hervé Joncour aveva 32 anni.
Comprava e vendeva.
Bachi da seta.”
Il
deserto dei tartari, Buzzati
“Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città
per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione.
Si fece svegliare ch'era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa da
tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò allo
specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato. Nella casa c'era un
grande silenzio, si udivano solo piccoli rumori da una stanza vicina; sua mamma
stava alzandosi per salutarlo.
Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava
alle giornate squallide dell'Accademia militare, si ricordò delle amare sere di
studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente
felice; delle sveglie invernali nei cameroni gelati, dove ristagnava l'incubo
delle punizioni. Ricordò la pena di contare i giorni ad uno ad uno, che
sembrava non finissero mai.
Adesso era finalmente ufficiale, non aveva più da consumarsi sui libri né da
tremare alla voce del sergente, eppure tutto questo era passato. Tutti quei
giorni, che gli erano sembrati odiosi, si erano oramai consumati per sempre,
formando mesi ed anni che non si sarebbero ripetuti mai.”
Io
uccido, Giorgio Faletti
“Porta da anni la sua faccia appiccicata alla testa e la sua ombra cucita ai
piedi e ancora non è riuscito a capire quale delle due pesa di più. Qualche
volta prova l'impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un chiodo e
restare lì, seduto a terra, come un burattino al quale una mano pietosa ha
tagliato i fili.
A volte la fatica cancella tutto e non concede la possibilità di capire che
l'unico modo valido di seguire la ragione è abbandonarsi a una corsa sfrenata
sul cammino della follia. Tutto intorno è un continuo inseguirsi di facce e
ombre e voci, persone che non si pongono nemmeno la domanda e accettano
passivamente una vita senza risposte per la noia o il dolore del viaggio,
accontentandosi di spedire qualche stupida cartolina ogni tanto.”
Harry Potter e la pietra filosofale, J.K.Rowling
“Mr e Mrs Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter
affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime
persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o
misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano.
Mr Dursley era direttore di una ditta di nome Grunnings, che fabbricava
trapani. Era un uomo corpulento, nerboruto, quasi senza collo e con un grosso
paio di baffi. Mrs Dursley era magra, bionda e con un collo quasi due volte
più lungo del normale, il che le tornava assai utile, dato che passava gran
parte del tempo ad allungarlo oltre la siepe del giardino per spiare i
vicini. I Dursley avevano un figlioletto di nome Dudley e secondo loro non
esisteva al mondo un bambino più bello.”
|
La
chimera, Sebastiano Vassalli
“Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1590, giorno di sant'Antonio Abate, mani
ignote deposero sul tomo cioè
sulla grande ruota di legno che si trovava all'ingresso della Casa di Carità di
San Michele fuori le mura, a Novara, un neonato di sesso femminile, scuro
d'occhi, di pelle e di capelli: per i gusti dell'epoca, quasi un mostro.
L'inverno era gelido, il mostro era avvolto in brandelli di coperta senz'altri
indumenti specifici che gli riparassero le mani e i piedi e sarebbe certamente
morto se una bayla (balia)
in servizio temporaneo presso la Casa di Carità, tale Giuditta Comignoli di
Oleggio, non avesse compreso, dall'abbaiare dei cani e da altri indizi, che
qualcuno s'era avvicinato al tomo e
non si fosse alzata dal letto per andare a vedere, sfidando il freddo polare di
quella notte senza luna; se non avesse suonato la campana che obbligava le
inservienti della Casa ad alzarsi: attirandosi ogni genere d'improperi, càncari, malesorti ed altre cortesie. Il mostro visse.”
Se ti
perdi tuo danno, Renzo
Brollo
“Dio
è un ologramma, un qualche cosa che si vede ma che non può fare molto di più.
Se fosse una vera potenza, uno che comanda insomma, farebbe ben altro, ve lo
dico io.
E su questo non c'è altro da pensare, mi pare. Così entro nel locale senza
pensieri per la testa se non la preoccupazione di trovare i soldi giusti da
dare in cassa, senza dover aspettare per forza un resto che non mi va di
ritirare. Il mio socio sbuffa perché sono già le tre di mattina, vorrebbe
andare a letto ma guido io e tornare a casa a piedi è come bestemmiare in
chiesa, considerando il fatto che ci sono almeno quindici chilometri di strada
buia e c'è da scollinare attraverso paesetti scaccolati tra gli anfratti di
queste forre tra il lago e la montagna.”
L’analisi di un testo descrittivo pressoché
perfetto, che trascina i cinque sensi del lettore e li mantiene vigili e lucidi
per tutto il tempo, può aiutarci a comprendere i meccanismi della stesura di un
buon incipit, anche se il testo in questione è un racconto breve. Anzi, proprio
perché è un racconto breve, tutti i criteri che teniamo presenti nella stesura
di un romanzo hanno qui ancora maggior ragione d’essere e ciò deve avvenire in
un minor numero di battute.
“Lei è
sotto la doccia. L’acqua le cade sul corpo e vi indugia formando repentine
stalattiti nell’abisso di quei seni che hai baciato per ore e ore. Metti il
caffè nel filtro, calcoli la quantità d’acqua per quattro tazze e premi il
bottone rosso.
Senti
il suono dell’acqua che inizia a bollire elettricamente e goccia a goccia cade
sul caffè, formando quella melma aromatica. Malta che unisce le pietre del
selciato mattutino.
Lei
appare col suo accappatoio annodato in maniera distratta. Puoi vederle le cosce
splendenti, ancora umide. Prendi la caffettiera, la porti sul tavolo, prepari
le tazze, vedi che i garofani resistono nella loro agonica altezza rosata. Non
sono così assolutamente imperituri come le rose di maggio.
Ora lei
appare con un asciugamano annodato come un turbante, puoi vederle la nuca, il
collo liscio e fresco che profuma di talco. Sotto il turbante, una minuscola
ciocca di capelli sfugge alle intenzioni dell’asciugatura e aderisce alla pelle
con una strana presenza bionda, pietrificata. Lei si siede, lo fai anche tu, e
davanti a voi il solito silenzio prende il suo posto.
Servi
il caffè lentamente, tendi verso di lei la mano con la tazza piena, riempi la
tua, con lo sguardo le offri le cose che sono sul tavolo. Pane, burro,
marmellata e altri alimenti che a quest’ora e in queste circostanze ti appaiono
assolutamente insipidi. Vedi che lei non accetta, che si limita ad accendere
una sigaretta e a versare qualche goccia di latte nella sua tazza di caffè.
Con il
cucchiaio compi brevi movimenti circolari che pian piano formano spirali, finché
non sei certo della totale dissoluzione dello zucchero che è sprofondato come
polvere di specchi in un pozzo, silenziosamente, rispettando il carattere
inviolabile di questa mattina-silenzio che inizia.
Alla
fine è lei la prima ad assaggiare il caffè e lì per lì pensa che forse la tazza
era sporca. Solleva gli occhi, ti guarda senza recriminazioni nello stesso
istante in cui tu bevi il primo sorso e immagini che questo sapore per il
momento inqualificabile sia dovuto alla sigaretta, ma è lei a dirlo:
“Questo
caffè sa di fallimento”.
Allora
ti alzi in piedi, le strappi la tazza di mano, prendi la caffettiera e rovesci
il liquido nel lavandino.
Il
caffè scompare in un gorgoglio caldo e non resta altro che un alone scuro
attorno allo scarico. Apri un pacchetto nuovo, calcoli l’acqua per quattro
tazze e rimani in piedi aspettando che, goccia a goccia, si formi di nuovo
quella porzione di melma mattutina.
Lo
servi. Lei assaggia. Ti guarda con tristezza. Non dice nulla. Bevi dalla tua
tazza e la guardi. Ora sei tu a esclamare:
“E’
vero. Sa di fallimento.”
Lei
dice con indulgenza che può essere dovuto allo zucchero o al latte e tu gridi
che non hai messo né latte né zucchero nel tuo caffè.
Accende
un’altra sigaretta e spinge via la sua tazza in mezzo al tavolo, mentre tu tiri
fuori i pacchetti di caffè che conservi in dispensa e con la punta di un
coltello li apri uno dopo l’altro, palpi freneticamente con le dita quella
polvere fine, assaggi, sputi, imprechi, e ti rendi conto che tutto il caffè di
casa ha lo stesso ineluttabile sapore di fallimento.
Lei non
ne ha assaggiato neppure un po’, ma lo sa.
Te lo
dice in silenzio. Te lo dice con lo sguardo perso nei disegni poliedrici della
tovaglia. Te lo dice con il fumo che soffia fuori dalle labbra.
Torni
alla tua sedia con la sensazione di avere una specie di mattone in gola. Vuoi
parlare. Vuoi dire che assieme avete bevuto molti caffè che sapevano di oblio,
di disprezzo, di odio gentile e monotono. Vuoi dire che questa è la prima volta
che il caffè ha un esasperante sapore di fallimento. Ma non riesci ad
articolare neppure una parola.
Lei si
alza dal tavolo. Va nella stanza accanto. Si veste lentamente e alle tue
orecchie arriva il clic del suo braccialetto. Si avvicina alla porta, prende le
chiavi, la borsa, il piccolo libro da leggere in viaggio, le viene in mente
qualcosa prima di aprire la porta e torna indietro fino a dove sei tu per
stamparti sulle labbra un bacio freddo che, per quanto ti sembri incredibile,
ha lo stesso sapore di fallimento del caffè.”
“
—
|
CAFFE’
da ‘Incontro d’amore in un paese in guerra’ di
Luis Sepulveda
|
Un esempio superlativo di incipit
descrittivo
“A
nord di Manantiales, villaggio petrolifero della Terra del Fuoco, sorgono le
quindici o venti
case di un paesino di pescatori chiamato Angostura, e cioè
"strettoia", perché si trova
proprio davanti al primo restringimento dello stretto. Le case sono abitate
soltanto durante
la breve estate australe. Poi, durante il fugace autunno e il lungo inverno,
non sono
altro che un punto di riferimento nel paesaggio.
Angostura
non ha cimitero, ma ha una tomba, un piccolo sepolcro che è stato dipinto
di bianco e che guarda verso il mare. Vi riposa Panchito Barria, un ragazzino morto
a undici anni. In tutto il mondo si vive e si muore, ma il caso di Panchito è tragicamente
speciale, perché il bambino è morto di tristezza.
Prima
di compiere tre anni, Panchito fu colpito da una poliomielite che lo lasciò invalido.
I suoi genitori, pescatori di San Gregorio, in Patagonia, ogni estate attraversavano
lo stretto per installarsi ad Angostura. Portavano con loro il bambino, come
un amoroso fagotto che se ne stava ben seduto su delle coperte, a guardare il mare.
Fino
a cinque anni Panchito Barria fu un bambino triste, poco socievole, quasi incapace di parlare. Ma un bel giorno accadde uno di quei miracoli che sembrano ovvi nel
sud del mondo:una formazione di venti o più delfini australi comparve davanti
ad Angostura,nel
loro passaggio dall' Atlantico al Pacifico.
Gli
abitanti del luogo che mi hanno raccontato la storia di Panchito, hanno detto
che appena
li vide, il bambino si lasciò sfuggire un urlo lacerante, e che a mano a mano
che i
delfini si allontanavano, le sue grida crescevano in volume e sconforto. Alla
fine, quando
i delfini erano ormai scomparsi, dalla gola del bambino sfuggì un grido acuto, una
nota altissima che allarmò i pescatori, ma che fece tornare indietro uno dei
cetacei.
Il
delfino si avvicinò alla costa e iniziò a fare salti nell'acqua. Panchito lo incoraggiava
con le note acute che gli sgorgavano dalla gola. Tutti capirono che tra il bambino
e il cetaceo si era stabilita una forma di comunicazione che prescindeva da dubbi
e spiegazioni. Era successo perché la vita è fatta così. Punto e basta.
Il
delfino rimase davanti ad Angostura per tutta l'estate. E quando
l'approssimarsi dell'inverno
impose di abbandonare il luogo, i genitori di Panchito e gli altri pescatori notarono
stupiti che nel bambino non c'era la minima traccia di dolore. Con una serietà inaudita
per i suoi cinque anni, dichiarò che anche il suo amico delfino sarebbe
partito, perché
altrimenti ghiacci lo avrebbero intrappolato, ma che l'anno dopo avrebbe fatto ritorno.
E
l'estate successiva il delfino tornò.
Panchito
cambiò, divenne un bambino loquace, allegro, arrivò a scherzare sulla sua condizione
di invalido. Cambiò radicalmente. l suoi giochi con il delfino si ripeterono per
sei estati. Panchito imparò a leggere, a scrivere, a disegnare il suo amico
delfino.
Collaborava
come tutti gli altri bambini alla riparazione delle reti, preparava zavorre, seccava
frutti di mare, sempre con il suo amico che saltava nell'acqua, compiendo prodezze
solo per lui.
Una
mattina d'estate del 1990 il delfino non venne al suo quotidiano appuntamento.
Allarmati,
i pescatori lo cercarono, rastrellando lo stretto da cima a fondo. Non lo trovarono,
ma incontrarono una nave officina russa, una delle assassine del mare, che navigava
vicinissimo al secondo restringimento dello stretto.
Due
mesi dopo Panchito Barria morì di tristezza. Si spense senza piangere, senza mormorare
un lamento.
Io ho
visitato la sua tomba, e da lì ho guardato il mare, il mare grigio e agitato
degli inizi
d'inverno. Il mare dove fino a poco tempo fa giocavano i delfini.”
Luis Sepulveda, Patagonia Express, Appunti
dal Sud del mondo, Feltrinelli, 1995